A casa, nel mondo

A sei anni di distanza dal “naufragio di Lampedusa” che vide la morte di oltre trecento persone il 3 ottobre 2013, la Commissione Libertà civili, Giustizia e Affari interni del Parlamento europeo ha tenuto un’audizione sulle politiche migratorie e la situazione nel Mediterraneo. Tra gli ospiti, la comandante della nave Sea Wacth 3 Carola Rackete

Sono passati sei anni dal terribile naufragio che, al largo di Lampedusa, costò la vita a 368 persone, lasciando 20 dispersi e 155 sopravvissuti. Erano migranti, persone in fuga dall’Eritrea verso quella che speravano sarebbe stata la loro possibilità di salvezza, il loro “porto sicuro”: l’Europa.

Era il 3 ottobre 2013. Quello che fu un giorno di lutto e di vergogna per l’Europa intera e per l’Italia, viene ricordato oggi come “Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione”.

Proprio questa data è stata scelta per tenere un’audizione pubblica della Commissione LIBE (Libertà civili, Giustizia e Affari interni) del Parlamento europeo, per discutere della situazione odierna relativa alle operazioni di salvataggio nel Mediterraneo e del quadro normativo che le regola. “L’audizione”, si legge nel comunicato della commissione parlamentare, “si svolge sullo sfondo della tragica situazione nel Mediterraneo. 933 persone sono morte o disperse nel Mediterraneo dall’inizio del 2019”. All’evento hanno preso parte, assieme agli europarlamentari, rappresentanti di ONG, dell’Agenzia europea per i Diritti Fondamentali, della Commissione europea, di Frontex (la “guardia costiera” europea) e della Guardia Costiera italiana.

Ma l’intervento forse più atteso e senz’altro tra i più “potenti” è stato quello di Carola Rackete, la capitana della nave Sea Watch 3 appartenente all’omonima ONG tedesca. Accolta da quella che le maggiori agenzie di stampa italiane ed europee definiscono come una vera e propria “standing ovation” da parte dei presenti in aula, la capitana ha ancora una volta inchiodato i presenti ed i governi da questi rappresentati alle proprie responsabilità, con una semplice ma ineludibile domanda: “Dov’eravate quando abbiamo chiesto aiuto? In Europa, la culla dei diritti, nessun governo voleva 53 migranti. I governi hanno eretto muri… È stata una vergogna”.

Semplice, appunto.

E oggi? Oggi, dove siamo?

Diverso tempo -e, forse, diversi “tempi” ci separano da quella terribile mattina di ottobre di sei anni fa, quando dicemmo, forte: “Non succederà più”. Eppure, fino ad oggi, migliaia di persone hanno continuato a morire attraversando il Mediterraneo nella speranza di un futuro migliore.

Eppure, nello stesso giorno di sei anni dopo, ci sembra tuttavia di poter iniziare a sentirsi lontani anche da un altro “tempo”, più recente: proprio quello in cui, solo nel giugno di questo stesso anno in cui scriviamo, alla nave della capitana Rackete e alle 53 persone a bordo in cerca di salvezza, ancora una volta quella salvezza qualcuno provò a negarla.

E, ancora una volta, qualcuno rispose: non si può negare la vita, non si può negare la dignità. Non si può negare l’umanità.

Ecco, a distanza di qualche mese ci sembra di poter dire che l’eco di quella risposta risuoni ogni giorno più forte e sempre un po’ più sicuro, in Italia e in Europa.

Risuonava quando, solo alla fine del mese di settembre, i governi di quattro Paesi europei, tra cui l’Italia, in vertice a Malta, hanno compiuto un primo -seppur ancora incompleto, certo- passo per rivedere le politiche di accoglienza europee.

Risuonava quando, il giorno appena successivo, le associazioni della campagna #IoAccolgo ha lanciato un nuovo appello al Governo e al Parlamento italiani, per chiedere una revisione complessiva delle norme sull’immigrazione.

Risuona, se si torna ad aprire la discussione sulla possibilità di garantire il diritto di cittadinanza italiana ai figli di tutte quelle donne e quegli uomini che hanno potuto fare dell’Italia il loro “porto sicuro”, la loro casa.

Ecco, non ci resta che continuare a batterci per tenere viva quella voce, per tenere viva quell’umanità che qualcuno ha provato a negare – ma non ci è riuscito e non ci riuscirà mai: né oggi, né ogni altro giorno.