Con il voto del 14 febbraio 2019, la premier britannica Theresa May ha subito una schiacciante sconfitta in Parlamento, dove aveva presentato una mozione perché le venisse concesso più tempo per trattare con l’Unione Europea riguardo ad alcuni punti cruciali della Brexit, come il backstop irlandese.
Nella sconfitta – 303 voti contrari contro 258 in favore – è stato decisivo il comportamento dei Tory. L’European Research Group (ERG), un gruppo di conservatori euroscettici, si è infatti astenuto dal voto per protestare contro il fatto che la mozione del governo sembrasse escludere la possibilità di un no-deal Brexit. Questo gruppo conta volti noti come Boris Johnson, ex Ministro degli esteri; Dominic Raab, ex Segretario di Stato per l’uscita dall’Unione europea, e Steve Baker, ex Ministro per la Brexit.
Al di là della sconfitta della mozione (che comunque non ha valore legale), questo voto sottolinea ancora una volta come a questo punto la premier abbia perso il controllo dei suoi supposti alleati a poche settimane dall’uscita dall’UE; sembra praticamente impossibile che May riesca a ottenere dall’Europa delle concessioni che possano soddisfare questa frangia radicalmente antieuropeista.
Downing Street ha minimizzato il valore del voto dicendo che Theresa May capisce le preoccupazioni dell’ERG. Questa dichiarazione, ad ogni modo, ha scatenato la furia dei molti Tory che vogliono evitare a ogni costo un no-deal Brexit.
La tensione in Parlamento è poi aumentata. L’ex ministro Nick Boles *ha posto l’attenzione su come, a suo parere, questa sconfitta dovrebbe far realizzare a Theresa May che non si può fidare degli ERG e che vanno assolutamente arginati, in quanto “faranno di tutto per raggiungere un no-deal Brexit”. Uno dei Ministri degli affari [?] di May, Richard Harrington, ha addirittura aggiunto che forse gli ERG dovrebbero unirsi all’Ukip.
Jeremy Corbyn, leader del Partito Laburista, ha richiesto che Theresa May, che fino ad ora aveva sostenuto di avere una maggioranza sostanziale di supporto ai suoi piani, si presenti alla Camera dei Comuni per giustificare il suo approccio alla Brexit, che chiaramente – oggi è più che mai evidente – non ha sostegno parlamentare. Corbyn ha dichiarato: “Il governo non può continuare a ignorare o tirare dritto verso il 29 marzo senza un piano coerente”.
Il 6 febbraio, Corbyn aveva scritto una lettera a Theresa May offrendole il suo appoggio nella gestione del lungo divorzio con l’Unione Europea, a patto che rispettasse cinque condizioni:
- Un’unione doganale “permanente e complessiva” con l’UE, che includa la possibilità di avere voce in capitolo in futuri accordi commerciali;
- Un allineamento ai regolamenti del mercato interno, supportato anche da Istituzioni comuni;
- Un allineamento “dinamico” sulla protezione e i diritti per i cittadini,, affinché “gli standard britannici non siano inferiori a quelli dell’Unione”;
- Accordi chiari sulle future misure di sicurezza, per esempio riguardo l’uso del mandato d’arresto europeo
- Un chiaro impegno sulla partecipazione del Regno Unito nelle agenzie e nei programmi di finanziamento europei.
Il 7 febbraio Theresa May si era incontrata con il Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker per discutere ulteriormente della Brexit ma pare che, nei 45 minuti di incontro tra May e Juncker, la premier non avesse avanzato alcuna proposta concreta. Proprio in questo frangente, il Presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk aveva suggerito che le proposte di Corbyn potessero aiutare a risolvere la crisi sull’accordo Brexit. In generale, dal lato dell’Europa non ci sono segnali positivi: c’è chi dice apertamente che May sta fingendo di negoziare per prendere tempo, e chi ricorda che non si possono trovare soluzioni “magiche” per i britannici.
Ad ogni modo l’11 febbraio, nella sua risposta alle richieste di Corbyn, May aveva rifiutato l’idea di un compromesso con i Labour sulla Brexit, e aveva escluso l’idea di una forma di unione doganale in quanto non lascerebbe che il Regno Unito firmi i propri accordi indipendenti (ancora inesistenti a meno di 50 giorni dalla data di uscita).
Quella di May non è l’unica mozione ad aver ricevuto un voto negativo nella sessione del 14 febbraio; anche un emendamento dei Labour, che proponeva che i parlamentari potessero votare sul withdrawal agreement entro il 27 febbraio, o che il governo fosse obbligato a lasciare che i membri del Parlamento votassero sui prossimi passi della Brexit, è stato sconfitto per 16 voti. Non ha avuto approvazione neppure una mozione dello Scottish National Party che chiedeva che la Brexit fosse posticipata di tre mesi.
Insomma, ciò che accadrà a seguito del voto contrario a Theresa May del 14 febbraio non è affatto chiaro. Quello che è sicuro è che May farà fatica a sostenere di avere una maggioranza parlamentare per la sua strategia sulla Brexit e che, a loro volta, i leader dell’Unione Europea saranno ancora meno disponibili a trattare con il Regno Unito.
Intanto, annuncia il Guardian, la settimana prossima Jeremy Corbyn incontrerà a Bruxelles il capo negoziatore Ue sulla Brexit, Michel Barnier e il coordinatore per il Parlamento europeo Guy Verhofstadt.
In generale, questa sconfitta scatena dubbi sulla capacità del governo May di gestire le operazioni del Parlamento. Da entrambi i lati politici, molti credono che la sconfitta della mozione di May si sarebbe potuta evitare se ci fossero state più consultazioni approfondite con i membri del Parlamento.
Grazie alla mozione accettata della MP Tory (ma pro-remain) Anna Soubry, il governo dovrà pubblicare un documento sui danni che potrebbe causare un no-deal Brexit. Questo potrebbe migliorare la posizione dei parlamentari che vogliono escludere la possibilità di un no-deal , anche se sembra che il pubblico non sia particolarmente interessato a questi preoccupanti scenari.
Questo voto ha, essenzialmente, posticipato delle decisioni chiave: non c’è stato un voto che desse al Parlamento il potere di escludere un secondo referendum, e non c’è stato un voto su un secondo referendum. Diversi Tory sembrano intenzionati a supportare l’emendamento Labour che escluderebbe un no-deal Brexit, specialmente dopo che May ha dichiarato di avere un’attenzione speciale per gli ERG, che invece l’opzione del no-deal la supportano caldamente.
Nonostante il governo May sia ancora in alto mare a meno di due mesi dalla Brexit, uno studio di YouGov, pubblicato pochi giorni prima del voto, ha verificato che se si andasse alle elezioni generali in questo momento, Theresa May riuscirebbe a strappare qualche posto in parlamento e ottenere una marginale maggioranza.
Lo scenario, se possibile, resta ancora più caotico di quanto non lo fosse un mese fa. L’unica cosa certa è che il 29 marzo si avvicina e che, se non si trova rapidamente la volontà politica per arrivare ad una soluzione ragionevole e condivisa, il caos resterà l’unica opzione possibile: quella di una Brexit senza accordo.