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Cittadini come gli altri? In Belgio continuano le espulsioni di cittadini europei considerati un “onere eccessivo”

Tra il 2008 e il 2016, oltre dodicimila cittadini europei hanno ricevuto un ordine di lasciare il territorio da parte del Belgio. Lavoratori indipendenti e salariati, persone in cerca di occupazione, lavoratori disoccupati, familiari e studenti sono alcune delle categorie di persone vittime dei decreti di espulsione. Ad essere maggiormente colpiti sono cittadini romeni, bulgari, olandesi, italiani e spagnoli, ma nessuna nazionalità è immune. Il nostro Osservatorio porta avanti un dossier specifico sulla questione. 

Il fenomeno migratorio è senz’altro un fenomeno strutturale e intrinseco all’Europa: se ne ritrovano antiche e profonde tracce già nella mitologia greca, che nel mito di Europa (Ευрώπη, la fanciulla dai “grandi occhi”), alludeva alle prime relazioni dei Greci con l’Oriente ed i territori d’occidente. Insomma, l’Europa è ed è sempre stata, fin dagli albori della sua esistenza, una “terra di mezzo”, terra di incontri e scambi, i cui abitanti provenivano da ogni parte del mondo.

Tuttavia, tale apertura sembra oggi a rischio di divenire un ricordo lontano. Gli effetti della crisi economica e finanziaria del 2008, cui si aggiungono l’emergenza dei migranti extra-europei e gli esiti del post Brexit, hanno ricondotto i temi della libera circolazione e dei diritti di cittadinanza sotto una luce di austerità, in cui la parola “chiusura” troppo spesso si pone come alternativa ad un progetto di Europa aperta ed inclusiva.

In particolare, la libertà di circolazione dei cittadini europei e, quindi, i diritti che da questa derivano, primo tra tutti il diritto alla non discriminazione in base alle proprie origini nazionali, sembrano oggi essere messi in seria discussione da una volontà disgregatrice presente in molti Stati europei, feroce antagonista del progetto di Europa sociale, aperta ed inclusiva, che in passato si è voluto costruire.

Dall’inizio della crisi economica e finanziaria del 2008, nuovi flussi migratori intraeuropei si sono intensificati. I “nuovi migranti europei” di oggi non provengono più solamente dai paesi dell’Europa dell’est – il cui “fresco” ingresso nell’Unione, nell’immediato post-crisi, permetteva ai propri cittadini di spostarsi più facilmente oltre confine – ma anche dai paesi dell’Europa del sud. In anni recenti, infatti, un numero sempre crescente di cittadini europei ha deciso di reagire ai problemi derivanti da una crescente precarietà economica e sociale attraverso strategie transnazionali, esercitando dunque la propria libertà di circolazione per emigrare in paesi diversi dal proprio.

Parallelamente, agli inizi degli anni Duemila, mentre la Corte di giustizia dell’Unione europea effettuava un’opera d’interpretazione della normativa comunitaria in materia di libertà di circolazione e sicurezza sociale, ampliandone la portata al fine di garantire a tutti i cittadini l’applicazione dei principi di parità di trattamento e di solidarietà, è mancata una riflessione politica costruttiva sulla realtà migratoria in Europa. Al contrario, sin dall’inizio della crisi, la libertà di circolazione dei cittadini dell’Unione – di tutti i cittadini – ha costituito l’oggetto sempre più controverso di un dibattito politico incalzante che con sempre maggior veemenza ne ha messo in discussione la legittimità quale diritto assoluto e incondizionato.

Un “onere eccessivo”: il Belgio espelle cittadini europei indesiderati

In questo contesto, è proprio uno dei paesi fondatori dell’Unione europea, il Belgio, ad essere divenuto il paradossale emblema dell’assurdo dibattito che unità e libertà le vorrebbe, sì, ma solo per alcuni. A farne le spese, oltre diecimila cittadini e cittadine europei che negli ultimi anni si sono visti espellere dal piccolo regno nel cuore dell’Europa. La ragione? Queste persone rappresenterebbero, a detta dell’Office des Etrangers (ufficio stranieri), “un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale”. Per la precisione, tra il 2008 e il 2016, il Belgio ha notificato ad un totale di 12.735 cittadini dell’Unione una decisione che metteva fine al loro soggiorno, con annesso ordine di espulsione (ordre de quitter le territoire). Da sole 8 nel 2008, tali decisioni si sono moltiplicate in anni recenti subendo incrementi esponenziali, con un picco di 2.712 nel 2013, fino ad approdare, nel 2016, ad un totale di 1.918. Un bilancio in diminuzione, dunque, ma certo non rassicurante.

Il diritto europeo, e nello specifico la direttiva 2004/38 sulla libera circolazione dei cittadini UE e dei loro familiari, prevede l’eventualità che un cittadino dell’Unione venga espulso dal paese ospitante in soli tre casi, ovvero quando egli costituisca una minaccia per l’ordine pubblico, per la pubblica sicurezza o per la salute pubblica del paese. Ora, le espulsioni che da quasi dieci anni a questa parte si verificano in Belgio, niente hanno a che vedere con dette motivazioni: le ragioni alla base sono invece di natura squisitamente economica e si fondano su di un’interpretazione estremamente arbitraria e à la carte della normativa comunitaria. Quest’ultima difatti, definendo i limiti e le condizioni per l’accesso ed il soggiorno del cittadino UE in un altro paese membro dell’Unione, specifica altresì che egli debba evitare di rappresentare “un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale dello Stato ospitante”. Formula, questa, che senza ulteriori precisazioni viene di fatto lasciata alla libera interpretazione dei singoli Stati che, come nel caso del Belgio, la utilizzano come passepartout per giustificare l’allontanamento di cittadini e lavoratori che, talvolta più precari di altri, meriterebbero invece maggiori tutele e protezione. Contrariamente a quanto le autorità belghe vorrebbero far credere, inoltre, destinatari del maggior numero di ordini di espulsione non sono cittadini economicamente inattivi, capro espiatorio di una fantomatica lotta ad un inesistente “turismo sociale”, che tanto piace alle destre populiste europee: ad essere maggiormente colpiti dalla pioggia di decreti di espulsione sono invece lavoratori e lavoratrici indipendenti e salariati, oltre che familiari di cittadini europei, persone in cerca di occupazione e studenti.

Questi ordini di lasciare il territorio si configurano chiaramente quali pratiche discriminatorie tese ad escludere un crescente numero di cittadini dell’Unione dall’accesso alle prestazioni sociali e dal diritto di soggiorno, attraverso meccanismi automatici di controllo che non sembrano tenere in alcuna considerazione la situazione concreta e personale dei diretti interessati.

INCA CGIL in prima linea nel denunciare le espulsioni

Se, da un lato, dette discriminazioni risultano in una violazione palese della normativa europea in materia di libera circolazione e sicurezza sociale, dall’altra il rischio è che tali violazioni, se incontrastate, finiscano prima o poi col trovare una legittimazione, alla luce del dibattito attuale e delle rivendicazioni degli Stati membri in termini di maggiori restrizioni alla mobilità delle persone, col pretesto di proteggere il sistema finanziario nazionale a fronte di costi eccessivi derivanti dalla presenza di cittadini stranieri.

Sin dal primo momento in cui la problematica delle espulsioni in Belgio è venuta alla luce, l’INCA CGIL si è fatta promotrice, insieme al sindacato belga FGTB e ad una serie di altri soggetti associativi internazionali con sede a Bruxelles, di un processo di resistenza e denuncia delle pratiche discriminatorie messe in atto dal governo belga. Nel 2014, insieme alla FGTB , EU Rights Clinic e Bruxelles Laique, l’INCA CGIL ha presentato una denuncia formale dinnanzi alla Commissione europea, la quale ha successivamente deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti del Belgio.

L’accusa: violazione degli articoli 7 e 14 della Direttiva 2004/38 sul diritto di circolazione e soggiorno dei cittadini UE e degli articoli 4 e 61 del Regolamento 883/2004 sul coordinamento della sicurezza sociale. Alla denuncia aveva fatto eco, pochi giorni dopo, un’interpellanza parlamentare degli eurodeputati verdi Philippe Lambert e Monica Frassoni.

“Tanto la nostra denuncia quanto l’interpellanza del Parlamento europeo”, spiegava allora la presidente dell’INCA CGIL Morena Piccinini, “prendono spunto dal caso di un lavoratore italiano in Belgio, che si è rivolto ai nostri uffici perché colpito da un ordine di espulsione dopo essere rimasto involontariamente disoccupato. Il nostro assistito ha lavorato 23 anni in Italia come operaio specializzato. Come molti altri durante la crisi, ha perso il lavoro quando il suo datore ha dichiarato fallimento e ha quindi cercato, e trovato, una nuova occupazione in Belgio. Ma anche qui, la ditta ha chiuso i battenti dopo solo 8 mesi”.

Sulla base del regolamento 883/2004 e della normativa belga in materia di disoccupazione, il lavoratore in questione possedeva allora tutti i requisiti per beneficiare delle prestazioni di disoccupazione, ma le autorità belghe, utilizzando un’interpretazione del tutto pretestuosa della direttiva 2004/38 sulla libera circolazione, ritennero che il suo lungo periodo di inattività in Belgio (5 mesi a fronte di 23 anni di lavoro!) dimostrasse inderogabilmente un’impossibilità di trovare un nuovo lavoro. Decisero, pertanto, di notificargli un ordine di lasciare il territorio: cancellato dai registri della popolazione, perse così l’accesso ad ogni diritto sociale e sanitario. Come lui, tanti altri lavoratori e lavoratrici europei, in situazioni differenti, sono stati vittima di decisioni discriminatorie e arbitrarie che li hanno privati del diritto ad esistere.

Nel luglio 2016, la Commissione rispondeva finalmente alla denuncia contro il Belgio. Il verdetto, tuttavia, non era quello sperato. In sostanza, la Commissione concludeva di non poter dimostrare a sufficienza che la pratiche delle autorità belghe costituisse una violazione del diritto comunitario, archiviando pertanto la questione. Se la battaglia resta dunque aperta ed il campo disseminato di ostacoli, l’INCA non si dà per vinta e continua a supportare e sostenere tutti i cittadini e le cittadine, i lavoratori e le lavoratrici, che lottano per veder rispettati i loro diritti.

Ricostruire un’Europa sociale: una priorità per tutti

In un contesto in cui, visti gli effetti combinati della crisi e del processo di allargamento europeo – oltre che dell’incremento dei flussi migratori dai paesi extra-europei –, stanno cambiando radicalmente la composizione, la portata e persino la natura dei flussi migratori interni allo spazio europeo, episodi di espulsione di cittadini dell’UE, senza contare le ripercussioni immediate sui singoli uomini e donne che ne sono vittime, diventano l’emblema quasi paradossale di un trattamento differenziale e gerarchizzato dei migranti, siano essi comunitari o meno. Questo sistema basa sempre più pericolosamente tale differenziazione su di uno schema “cittadino di serie A/cittadino di serie B”, dove l’appartenenza all’una o all’altra classe è data da un criterio squisitamente economico, oltre che di appartenenza nazionale.

Ora, non si può fare a meno di notare come questa situazione non sia altro se non la rappresentazione in chiave kafkiana dell’approccio generale alla condizione del migrante in Europa, confermando quest’ultimo, qualsiasi sia la sua origine, in una situazione di subalternità rispetto al cittadino nazionale o, al limite, europeo.

Al fine di capire il processo in atto e come tali svolte nazionaliste e protezionistiche siano effettivamente possibili, diventa fondamentale interrogarsi su quale sia, oggi, il posto dei diritti sociali nel sistema europeo. Ad oggi, la risposta dei leader europei sembra purtroppo essere che, al di là delle dichiarazioni di principio, la sfera dei diritti sociali e, quindi, le politiche ad essi collegate, sia rimasta e debba rimanere una materia di competenza quasi esclusiva degli Stati nazionali, mentre all’Unione è affidata di fatto una mera funzione di coordinamento.

La ridefinizione della dimensione della solidarietà sociale in atto, sia fuori che dentro i confini nazionali, riflette lo stato di salute precario del progetto europeo. La volontà di trovare una cura richiede un processo di riflessione approfondito sulla costruzione stessa dell’Unione europea. Questo tipo di riflessione obbliga a interrogarsi con maggiore serietà su quali siano – e su quali si vuole che siano – i confini della solidarietà europea, provando a capire dove stiano i punti di impasse che rendono tali confini deboli a fronte dei rischi rappresentati dalle rinnovate politiche nazionaliste ed anti-europeiste che cercano di farvi breccia, agitando le fondamenta della costruzione comunitaria.

Il fenomeno delle espulsioni dal Belgio si inserisce in un momento politico estremamente delicato e complesso, dominato da un fervente dibattito, in seno a molti dei “vecchi” Stati europei, in merito all’opportunità di limitare la libertà di movimento dei cittadini al fine di contrastare il presunto fenomeno del “turismo sociale” – della cui esistenza, peraltro, non esiste ad oggi alcuna conferma. Parallelamente, la deriva securitaria delle politiche migratorie europee giustifica ed impone controlli, restrizioni e abusi sempre più eclatanti nei confronti dei migranti che cercano di raggiungere l’Europa, mentre le destre nazionaliste e xenofobe cavalcano le paure dei cittadini economicamente e socialmente più precari, legittimando ai loro occhi sempre maggiori richieste di stabilità e “sicurezza”.

Risulta difficile non ravvisare in questo quadro il sintomo di un processo di mutamento dello stesso paradigma normativo della solidarietà sociale europea. Se in passato lo status di cittadinanza europea ha avuto il merito di universalizzare la logica dell’integrazione sociale, scardinandola dall’iniziale visione mercantilistica del processo d’integrazione, tornare ad affermare la centralità del requisito economico quale elemento dirimente nell’esercizio della libertà di circolazione costituisce senza dubbio un passo indietro nell’evoluzione della dimensione sociale del progetto europeo stesso. Se il godimento dei diritti sociali è la precondizione necessaria al pieno esercizio della libera circolazione, la tendenza generale del dibattito odierno, tuttavia, non consente di ritenere che tale affermazione sia largamente condivisa in Europa. Il crescente affermarsi di partiti populisti di estrema destra in molti paesi tra cui l’Austria, il Belgio, la Francia, la Germania, l’Italia, i Paesi Bassi, senza contare il Regno Unito, sembra voler aprire la strada verso uno scenario di ulteriore smantellamento dei diritti sociali, attraverso una strategia di sempre maggiore chiusura entro i confini nazionali.

Emerge dunque con sempre maggior forza la necessità di rafforzare la dimensione sociale europea, nel senso di un consolidamento effettivo, oltre che del diritto alla libera circolazione e soggiorno, della protezione sociale per tutti, senza più discriminazioni legate all’appartenenza nazionale.

Affinché ciò avvenga, l’Europa sociale deve tornare ad avere un significato tangibile per i cittadini europei e questo potrà essere possibile anzitutto se gli stati e le istituzioni dell’Unione, anziché cedere ai ripiegamenti nazionalistici paventati dalle forze populiste di destra, si faranno portatori di una politica di rilancio, serio e concreto, della protezione dei diritti sociali di tutti i cittadini, europei e non europei, lavoratori e non lavoratori, migranti e non migranti.