La scorsa settimana, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno compiuto alcuni passi verso l’approvazione di una riforma della normativa comunitaria in materia di lavoro distaccato. La riforma, che era stata proposta dalla Commissione nel marzo 2016, verrà ora discussa tra le due istituzioni, che apriranno i negoziati a novembre.
Tra gli obiettivi della riforma, vi è quello di assicurare che i lavoratori europei distaccati in un altro Paese dell’Unione beneficino di condizioni salariali eque, secondo il principio “salario uguale a lavoro uguale sullo stesso luogo di lavoro”, come affermato in più circostanze dal Presidente della Commissione Jean-Claude Juncker. Vediamo più da vicino cosa comporta una tale riforma.
Innanzitutto, chi sono, esattamente, i lavoratori distaccati? La libera circolazione dei servizi costituisce una delle libertà fondamentali su cui è costruito il mercato unico europeo, insieme alla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone – quest’ultima, arrivata in un secondo tempo proprio per garantire l’effettivo funzionamento del mercato comune, è il principio che sta alla base, oggi, della mobilità europea. In forza della libera circolazione dei servizi, le imprese di un dato Paese europeo possono dunque fornire servizi in un altro Stato membro dell’Unione, senza doversi fisicamente stabilire in tale Paese: sono lavoratori distaccati quei lavoratori che vengono inviati temporaneamente dal proprio datore di lavoro a prestare un servizio in un altro Stato. Essi rimangono dunque alle dipendenze dell’impresa che li invia e la loro presenza nel Paese in cui sono distaccati è quindi temporanea e strettamente correlata alla prestazione del servizio. Pertanto, la nozione di “lavoratore distaccato” non comprende, o, meglio, non è inclusa in quella di “lavoratore migrante”, che si riferisce invece a coloro che si trasferiscono dal proprio Paese di origine per lavorare o cercare lavoro in un altro Paese, spesso in una prospettiva permanente o di lungo periodo. Mentre questi ultimi si integrano nel mercato del lavoro del Paese ospitante e sono dunque soggetti alle normative locali in materia di protezione sociale, i lavoratori distaccati rimangono invece coperti dal sistema di sicurezza sociale del Paese di origine, anche durante i periodi in cui prestano la propria attività all’estero.
Secondo la Commissione europea, nel 2015 i lavoratori distaccati nell’Unione europea sono stati più di 2 milioni ed il loro numero è aumentato del 41,3% tra il 2010 e il 2015. Se, nel complesso, il peso percentuale del lavoro distaccato rimane basso rispetto al totale della forza lavoro europea (poco meno dell’1%), la precaria condizione dei lavoratori distaccati all’estero merita senz’altro maggiori tutele: questi ultimi infatti, non godono di parità di trattamento – in termini sia di diritti che di salari – rispetto ai lavoratori nazionali. Questa condizione di precarietà, insieme alle tensioni sociali che inevitabilmente produce, ha fatto sì che negli ultimi anni la questione dei lavoratori distaccati sia stata oggetto di forti dibattiti in seno a molti Stati europei ed, in generale, a livello comunitario. Attualmente, l’86% dei lavoratori distaccati in Europa si trova in 15 Paesi dell’Unione: a riceverne il numero più consistente sono Germania, Francia e Belgio, che da soli ospitano circa il 50% del totale. Germania e Francia, insieme alla Polonia, figurano anche tra i Paesi che inviano a loro volta il maggior numero di lavoratori a prestare servizi in altri Paesi. La concentrazione dei lavoratori distaccati è particolarmente elevata in alcuni settori specifici dell’economia, primo fra tutti il settore edile, che ne assorbe circa il 36% del totale, distribuiti specialmente in Lussemburgo, Belgio e Austria. Un numero crescente di lavoratori che vengono distaccati è impiegato anche in altri settori, quali l’industria manifatturiera, l’istruzione, la sanità, i servizi sociali ed i servizi amministrativi e finanziari.
Una delle questioni cruciali, causa delle maggiori tensioni e di disuguaglianze spesso profonde, è quella della retribuzione dei lavoratori distaccati e degli oneri sociali a questa connessi. La normativa attuale che regola il lavoro distaccato in Europa risale al 1996 e stabilisce una serie di termini e condizioni minime per la protezione ed il trattamento dei lavoratori distaccati: tra queste, sono previsti una durata massima del periodo di attività lavorativa prestata all’estero (due anni) ed un salario minimo – ovvero, la società d’invio del lavoratore distaccato è obbligata corrispondere a quest’ultimo un salario non inferiore al salario minimo previsto dal Paese di accoglienza.
Nel corso degli ultimi vent’anni, non solo le condizioni economiche e sociali in Europa sono profondamente mutate, ma lo stesso mercato del lavoro ha subito numerosi stravolgimenti, tanto a livello comunitario che nazionale. Le differenze spesso profonde in termini di costo del lavoro e di sicurezza sociale nei diversi Paesi del’Unione fanno sì che il lavoro distaccato si presti ad essere utilizzato quale strumento per riprodurre dette differenze, che si traducono inevitabilmente in gravi disuguaglianze economiche e sociali tra i lavoratori stessi. Infatti, la normativa vigente non impedisce che i lavoratori distaccati all’estero guadagnino stipendi inferiori, pur se non al di sotto del salario minimo, rispetto ai lavoratori nazionali. Di conseguenza, lavoratori distaccati di Paesi che hanno bassi costi previdenziali e salariali, tendono a percepire salari più bassi rispetto a quelli dei loro colleghi locali a parità di lavoro. Secondo le stime della Commissione europea, vi sono attualmente casi in cui i lavoratori distaccati arrivano a guadagnare fino al 50% in meno rispetto ai lavoratori locali. Va da sé come questa situazione sia alla base di tensioni sociali crescenti, venendo – giustamente – percepita come un’ingiustizia, tanto dai lavoratori quanto dalle imprese locali, vittime del “dumping sociale” così generato. In anni recenti, inoltre, il tema è stato ampiamente cavalcato dalle forze xenofobe e antieuropeiste in molti Paesi d’Europa – compresa la Francia, fervente sostenitrice della riforma.
Una riforma delle norme in vigore, dunque, era necessaria. La proposta di riforma che le istituzioni europee stanno discutendo in queste settimane ha come obiettivo quello di assicurare la parità di trattamento salariale tra i lavoratori distaccati e i lavoratori locali ed il datore di lavoro dovrà inoltre versare al proprio lavoratore distaccato tutti i bonus previsti dal Paese di distacco. Il principio della parità di trattamento dovrà essere applicato anche ai lavoratori distaccati impiegati tramite le agenzie del lavoro. Tra le altre modifiche proposte, verrà ridotta la durata massima del distacco da 24 a 12 mesi, prolungabile di 6 mesi su richiesta dell’impresa di invio e con il benestare del Paese di accoglienza.
L’accordo sulla riforma raggiunto in seno al Consiglio dell’Unione europea – con il voto contrario di Polonia, Lituania, Lettonia e Ungheria – ha mostrato una spaccatura tra i governi europei e lascia tuttavia in sospeso alcuni punti, come ad esempio il trattamento dei lavoratori distaccati nel settore dei trasporti, ai quali non si applicheranno modifiche sino all’entrata in vigore del “pacchetto mobilità” dedicato al trasporto su strada, oppure il mancato riconoscimento di vari tipi di contratti collettivi.
In vista dei colloqui istituzionali di novembre, resta dunque compito cruciale del Parlamento europeo quello di mantenere un solido mandato negoziale, affinché le nuove norme che ne scaturiranno garantiscano condizioni più eque a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori distaccati.
Per saperne di più, vedere il sito del Parlamento europeo.