Il proliferare, negli ultimi decenni, dei contratti di lavoro atipico – dai più “classici”, se vogliamo, contratti a tempo determinato e part-time, ai falsi autonomi, fino alle nuovissime forme di lavoro on-demand e delle piattaforme online – ha profondamente mutato i rapporti di lavoro, nonché le prospettive d’ingresso e tutela nel mercato del lavoro di decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici. Se, da un lato, queste nuove forme di lavoro promettono di creare nuove ed innovative opportunità occupazionali e di crescita, dall’altro sollevano questioni cruciali in termini di diritti, sicurezza sociale e tutela dei lavoratori. Dietro il falso mito tutto liberale della flessibilità nascondono, per dirla in altri termini, il rischio sempre più tangibile della precarizzazione.
Negli ultimi anni, dunque, sono aumentati esponenzialmente quei lavoratori – europei e d’oltre oceano, giovani e meno giovani – che, colpiti dalle conseguenze più negative della crisi finanziaria e dalle conseguenti misure di austerità, si sono visti costretti ad accettare una serie sempre più fantasiosa di lavori atipici e precari per arrotondare le entrate. Ed è così che la gig economy – letteralmente, “economia dei lavoretti” –, promettendo soluzioni flessibili e creative ai nuovi problemi strutturali del mercato del lavoro in tutta Europa, è diventata la nuova frontiera della precarietà.
Questi nuovi “lavoretti” vengono proposti generalmente da aziende e startup digitali, che attraverso piattaforme online consentono ai proprietari di determinati beni o servizi (automobili, biciclette, immobili) di incontrare clienti a cui fornire il proprio servizio, tramite il pagamento di un intermediario. E’ il caso, per citarne solo alcuni tra i più noti a livello internazionale, di Airbnb, Deliveroo e Uber. Queste aziende, diffuse ormai a livello mondiale, lungi dall’essere mere piattaforme online, trattano in realtà prodotti tutt’altro che digitali: affitto di stanze e appartamenti tra privati (Airbnb), servizio taxi (Uber), consegne di pasti a domicilio (Deliveroo).
Se è pur vero che questo tipo di aziende possa aver creato nuove opportunità di occupazione per molti lavoratori e lavoratrici in Europa e nel mondo, è altrettanto vero che, allo stato attuale, questi stessi lavoratori e lavoratrici sono occupati in condizioni estremamente precarie e non godono di alcuna garanzia, in assenza della tutela di contratti di lavoro concordati tra aziende e sindacati. A livello europeo occorre, con urgenza, un impianto normativo e legislativo che chiarisca i confini di queste nuove aree occupazionali ed economiche.
In questo senso, si può iniziare a constatare che, forse, qualcosa si muove. Innanzitutto, si ricorderà che nello scorso novembre, i capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea riuniti nel vertice straordinario di Göteborg hanno proceduto alla proclamazione del Pilastro europeo dei diritti sociali. Una novità straordinariamente importante che, pur trattandosi di un catalogo di principi ed impegni non vincolanti per gli Stati membri, ha il merito di aver riportato l’Europa sociale al centro della discussione, dopo decenni di deriva neoliberista. Due ulteriori, piccoli, passi, avvenuti poco dopo la proclamazione del Pilastro, ci sembrano qui degni di nota: una sentenza della Corte di giustizia UE in merito allo status di Uber ed una proposta di direttiva della Commissione sulla trasparenza e prevedibilità dei contratti di lavoro.
Le approfondiamo qui di seguito.
Corte di giustizia UE: Uber non è semplicemente un’applicazione per smartphone
Il 20 dicembre 2017, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha decretato che Uber non è un’applicazione per smartphone, ma un fornitore di servizi di trasporto a tutti gli effetti. E, come tale, va regolamentato.
Uber, società fondata negli Stati Uniti nel 2009, fornisce un servizio retribuito di messa in contatto di conducenti non professionisti che utilizzano il proprio veicolo con persone che intendono effettuare spostamenti urbani, mediante un’applicazione per smartphone. In altre parole, un servizio privato di trasporto automobilistico.
La sentenza della Corte di giustizia UE conferma questo elemento, definendo Uber come un operatore dei trasporti e non come una società di servizi informatici per il semplice fatto di avvalersi di strumenti digitali che permettono l’incontro tra la domanda e l’offerta.
La decisione è stata presa dopo un ricorso presentato nel 2014 dall’Asociation Profesional Elite Taxi, un’associazione professionale di conducenti di taxi di Barcellona. Uber, che fino ad allora ha negato di essere un’impresa di trasporti e ha sostenuto di erogare servizi informatici attraverso una piattaforma o “App”, un’applicazione per smartphone, pretendeva che i suoi servizi fossero disciplinati dalla direttiva europea in materia di commercio elettronico (e-commerce). Il ricorso presentato dai rappresentanti legali della società dei trasporti spagnola e accettato dai giudici di Lussemburgo, invece, ha sostenuto che la compagnia statunitense debba invece essere ritenuta coinvolta nel trasporto di passeggeri, definendo Uber come una vera e propria azienda di trasporti.
Il servizio offerto da Uber, si legge nel comunicato della Corte che accompagna la sentenza, “deve essere considerato indissolubilmente legato a un servizio di trasporto e rientrante, pertanto, nella qualificazione di ‘servizio nel settore dei trasporti’, ai sensi del diritto dell’Unione. Un servizio siffatto deve, di conseguenza, essere escluso dall’ambito di applicazione della libera prestazione dei servizi in generale nonché della direttiva relativa ai servizi nel mercato interno e della direttiva sul commercio elettronico”. Non si possono, quindi, applicare le norme valide per la libera prestazione dei servizi o per il commercio.
Ne consegue, continua la Corte, che “è compito degli Stati membri disciplinare le condizioni di prestazione di siffatti servizi nel rispetto delle norme generali del trattato sul funzionamento dell’Unione europea”. Tra queste, vi è anche il rispetto dei diritti del lavoro e sindacali, ivi compreso il diritto alla contrattazione collettiva.
“Auspichiamo” – commenta Fausto Durante (Cgil) – “che Uber, insieme ai sindacati dei Paesi in cui opera, definisca accordi per stabilire il giusto salario e le condizioni di lavoro dei suoi operatori”.
Trasparenza e prevedibilità delle condizioni di lavoro. Un primo passo della Commissione
Nel quadro delle iniziative che danno seguito al Pilastro europeo dei diritti sociali, la Commissione europea ha adottato, il 21 dicembre 2017, una proposta di direttiva per implementare la trasparenza e la prevedibilità delle condizioni di lavoro in tutta l’UE. L’obiettivo della proposta è quello di aggiornare l’attuale normativa relativa agli obblighi di informare i lavoratori riguardo alle loro condizioni di lavoro, stabilendo nuove norme minime per garantire che tutti i lavoratori, inclusi coloro che sono impiegati con contratti atipici, beneficino di maggiore prevedibilità e chiarezza in merito alle proprie condizioni lavorative.
L’iniziativa fa seguito a due risoluzioni del Parlamento europeo: la risoluzione del 19 gennaio 2017 sul Pilastro europeo dei diritti sociali, in cui si chiedeva l’adozione di una direttiva quadro in materia di condizioni di lavoro dignitose, e quella del 4 luglio 2017 sulle condizioni di lavoro e l’occupazione precaria, la quale appunto domandava una revisione della normativa vigente – adottata nel 1991 – al fine di includervi e tutelare le nuove forme di occupazione precaria.
La proposta della Commissione andrebbe ad aggiornare quanto previsto dalla direttiva sulle dichiarazioni scritte, la cosiddetta direttiva “Written Statement” (direttiva 91/533/CEE), che riconosce ai lavoratori, all’inizio di un nuovo impiego, il diritto di ricevere informazioni per iscritto in merito alle condizioni alla base del rapporto di lavoro. Secondo le stime della Commissione, rispetto alla normativa in vigore, la proposta tutelerebbe altri 2-3 milioni di lavoratori inquadrati con contratti atipici.
La Commissione chiarisce che la proposta intende ridurre il rischio che determinate categorie di lavoratori non godano di sufficienti tutele, attraverso una serie di provvedimenti specifici:
- allineando la nozione di lavoratore a quella della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, al fine di garantire la copertura delle stesse categorie generali di lavoratori;
- integrando nell’ambito di applicazione della direttiva forme di lavoro subordinato che al momento sono spesso escluse, come i lavoratori domestici, i lavoratori a tempo parziale marginale o quelli con contratti di brevissima durata, ed estendendola a nuove forme di lavoro subordinato come i lavoratori a chiamata, i lavoratori pagati a voucher e i lavoratori tramite piattaforma digitale;
- garantendo che i lavoratori ricevano un fascicolo informativo aggiornato e ampliato sin dal primo giorno del rapporto di lavoro (non due mesi dopo come accade attualmente);
- stabilendo nuovi diritti minimi, quali il diritto a una maggiore prevedibilità del lavoro per coloro che lavorano per lo più con un orario variabile, la possibilità di chiedere la transizione a una forma di occupazione più stabile e di ricevere una risposta scritta o il diritto alla formazione obbligatoria senza deduzione dello stipendio;
- rafforzando gli strumenti di esecuzione e i mezzi di ricorso come ultima risorsa per risolvere eventuali controversie quando non è sufficiente il dialogo.
Sebbene non completamente in linea con le richieste della Ces, la proposta della Commissione costituisce un primo, essenziale passo verso una maggiore tutela dei diritti di tutti i lavoratori e le lavoratrici a livello europeo, anche di coloro che, come nel caso di alcune categorie di lavoratori dipendenti e dei lavoratori atipici, parasubordinati e autonomi, sono ad oggi estremamente precari e scarsamente tutelati. La direttiva proposta dovrà essere adottata dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione per essere successivamente recepita dagli Stati membri.
Il rinnovo del Parlamento europeo nel 2019 potrà giocare un ruolo cruciale, oltre che sull’avanzamento della direttiva in questione, nel rimettere il tema del lavoro, dei diritti dei lavoratori e dell’Europa sociale al centro della discussione a livello comunitario. In un’articolo pubblicato per Rassegna.it agli inizi di dicembre, Patrizio Di Nicola concludeva così: “Malone e Laubacher, circa 20 anni fa, avevano colto il rischio che si celava dietro all’economia dei lavoretti: le persone sarebbero divenute molto più indifese senza i programmi di welfare attivati dalle grandi imprese e in mancanza della tutela di un contratto di lavoro concordato tra aziende e sindacati. Per di più, la scomparsa dell’ambiente sociale e aziendale e della relativa comunità aliena le persone, facendole produrre magari a minor costo, ma con maggiore difficoltà e costi cognitivi, senza occasioni di confronto e aggiornamento professionale. In fin dei conti, anche se oggi sembra che le aziende se ne siano dimenticate, il lavoro non è solo un rapporto economico, ma anche sociale. E perdere tale dimensione, forse, può rendere le aziende più “veloci” e profittevoli, ma sicuramente le indebolisce e alla lunga le disgrega”. Ci auspichiamo che i primi passi compiuti verso una maggiore attenzione alla dimensione sociale dell’Europa si traducano, nei mesi e negli anni a venire, in un solido percorso politico collettivo.
Immagine da Flickr, photo credits: Shopblocks
ITACA, tramite l’Osservatorio sulla mobilità internazionale, sta portando avanti un lavoro di ricerca sulle nuove forme di lavoro atipico e precario in Europa e sulle implicazioni di tali cambiamenti nel mercato del lavoro in termini di diritti dei lavoratori.