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Lunedì 01 aprile a Bruxelles l’ETUI (European Trade Union Institute), in collaborazione con l’OFCE (Osservatorio Francese sulle Congiunture Economiche), ha organizzato un incontro dal titolo “Rebooting Social Europe. Some proposals to improve the social dimension”.

In vista delle prossime elezioni di maggio, una serie di esperti si sono dati appuntamento per chiedersi quale direzione prenderà l’Europa sociale dei prossimi anni. L’evento, tenutosi lunedì 01 aprile presso la sede dell’ETUI a Bruxelles, ha voluto stimolare il dibattito su temi quali la convergenza economica dei mercati del lavoro verso un’Europa più sociale e prosperosa e la promozione dell’uguaglianza di genere. Nel corso dell’incontro sono state analizzate alcune possibili prospettive per rafforzare e rilanciare la dimensione sociale del progetto europeo.

Il primo intervento è stato di Maria Jepsen, direttrice del dipartimento di ricerca dell’ETUI (European Trade Union Institute) e docente di Labour Economics all’Université Libre de Bruxelles. La studiosa ha dato il via al dibattito con un’analisi storica sulla dimensione sociale europea dell’ultimo cinquantennio. Ha individuato quattro periodi storici chiave che hanno dato il via a progetti ambiziosi nella direzione sociale – pur se non sempre andati a buon fine:
1) 1973/74: Primo programma d’azione sociale per l’Europa;
2) 1988/89: Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori e conseguente programma di azione;
3) 2000: progetto di una Costituzione europea (fallito). Il relativo dibattito era stato molto improntato sulla dimensione sociale: il progetto di Carta costituzionale comune era un chiaro modo di formalizzare le ambizioni sociali a livello europeo;
4) 2015/16: insediamento della Commissione Juncker, “crisi di legittimità” concernente la Commissione europea e il progetto europeo.

La Jepsen ha sottolineato come di solito questi cicli temporali siano durati circa 15 anni e, dopo un primo periodo di crescita di 5 o 6 anni, si sia tendenzialmente sempre passati a una fase di stasi.

In seguito, si è focalizzata sugli ultimi due “periodi”, analizzandone gli eventi più determinanti. Tra questi, il Trattato di Lisbona e il relativo focus sulla competitività tramite ad esempio il paradigma della “flessicurezza” – ovvero quella strategia che si propone di favorire, nello stesso tempo, la flessibilità del mercato del lavoro e la sicurezza sociale, soprattutto a vantaggio delle categorie più deboli dei lavoratori. O ancora il caso Viking-Laval, con il quale si è stabilito per la prima volta che l’Unione Europea potesse anche intervenire sul piano sociale, presagendo la riforma della politica sociale poi messa in atto da Juncker. La crisi finanziaria del 2008. Il Programma Europe 2020, progettato nel 2010 insieme al rafforzamento del sistema di governance economico. La strategia “Social triple A” promossa da Juncker, la Brexit nel 2016 e la scarsa fiducia nel progetto europeo.
Nel 2017 la proclamazione del Pilastro europeo dei diritti sociali che stabilisce 20 principi e diritti fondamentali per sostenere un processo rinnovato di convergenza verso migliori condizioni di vita e lavoro in Europa – la dottrina al momento, ha precisato la studiosa, non è univoca in merito a tutto ciò che possa esservi incluso o meno. Nel 2018 la direttiva sul lavoro distaccato (2018/957), voluta a fronte di un contesto di grande diversità sociale tra i Paesi europei e per arginare il fenomeno del dumping sociale. A dispetto di un iniziale rifiuto da parte di molti dei Paesi dell’Europa centro-orientale nel 2016, a precisato la Jepsen, già nel 2018 la revisione della direttiva 96/71/CE che disciplinava il lavoro distaccato è stata infine accolta, anche solo a seguito della considerazione per cui avere un modello di lavoro a basso costo fosse controproducente per la competitività. La recente direttiva 2018/957 è ritenuta dalla Jepsen un piccolo (pur se non ancora sufficiente) passo verso l’armonizzazione delle politiche sociali europee. La professoressa ha parlato poi di armonizzazione anche in tema di corporate governance.

In conclusione, ha delineato tre possibili scenari riguardo al futuro: 1) risoluzione di tutte le crisi economiche e sociali che stiamo vivendo; 2) alcuni punti positivi ma non un reale ribilanciamento; 3) forte crisi che richiederà un forte bisogno di ricostruzione e ribilanciamento.

In seguito ha preso la parola Hélène Périvier dell’OFCE (Observatoire Français des Conjonctures Economiques), un istituto di ricerca indipendente che svolge attività di studio, previsione e valutazione sulle politiche pubbliche, ed opera sin dal 1981 in Francia. La Périviere ha presentato un’analisi sull’uguaglianza di genere nel mercato del lavoro, fondata sull’art. 119 del Trattato di Roma del 1957. Storicamente questo principio era già stato richiamato nel 1919 dall‘Organizzazione Internazionale del Lavoro, la quale sanciva come profondamente ingiusta la condizione che vedeva le lavoratrici donne percepire retribuzioni inferiori rispetto ai lavoratori uomini.

Continuando sulla strategia economica per l’impiego a partire dal 1990, la studiosa ha rilevato che a partire da quegli anni è stata data una visibilità al tema delle disuguaglianze tra uomo e donna e purtroppo, a seguito della crisi del 2008, questo obiettivo fondamentale del diritto comunitario è passato in secondo piano.

Tramite uno studio di tipo economico, la Périviere ha calcolato il tasso di occupazione di uomini e donne, paragonando vari Paesi europei. Ha sottolineato le differenze esistenti, ad es., tra Germania e Francia, in cui, pur con un tasso di occupazione simile, persistono diversi salari, diverse carriere, diverse dinamiche: quindi, in base a questa analisi, la studiosa ha rilevato come la Francia abbia delle politiche di articolazione bifamiliari e professionali potenzialmente più favorevoli all’impiego delle donne rispetto alla Germania. Ha analizzato poi la situazione anche nei Paesi Bassi, dove il lavoro part-time è molto comune per uomini e donne, e il contesto in Italia e Grecia, Spagna e Portogallo. In Italia è stato osservato un notevole divario nella remunerazione complessiva. La ricercatrice si è mostrata molto critica rispetto al lavoro part-time delle donne, anche rispetto a quello “choisi” (“scelto”), spesso non frutto di una libera scelta effettiva della donna, ma costretta da ragioni familiari, dalla decisione di occuparsi anche dei figli piccoli o di altri membri della famiglia in assenza di strutture cui affidarli. La studiosa ha chiuso auspicando un intervento delle istituzioni europee per una maggiore convergenza in questo senso.

E’ intervenuto poi il presidente dell’OFCE, Xavier Rago. Il suo discorso si è articolato intorno a delle possibili misure per favorire la convergenza nel mercato del lavoro, affrontando vari punti. Innanzitutto la disoccupazione come “malattia” dell’Eurozona tra i Paesi sviluppati, problema da ridurre limitando le divergenze all’interno del mercato europeo. Poi ha analizzato come il tasso di disoccupazione sia un indicatore imperfetto degli squilibri nel mercato del lavoro, di fronte all’eterogeneità del lavoro europeo, tenendo conto di indicatori come il lavoro part-time e il tasso di partecipazione. Ha concluso con un accenno al dibattito a livello europeo su un intervento globale contro la disoccupazione.

Infine, dell’OFCE è intervenuta anche Sandrine Levasseur, la quale ha parlato di convergenze e divergenze nominali. Tramite un’analisi macro-economica e settoriale, ha presentato uno studio sull’evoluzione del tasso di cambio reale (che è un indicatore economico del livello di competitività di un Paese negli scambi internazionali) modificatosi a partire dal 2008 per la crisi finanziaria, e ha cercato dei meccanismi per spiegare questo fenomeno. Lo strumento adoperato è stato il teorema di Balassa-Samuelson. La Levasseur ha messo in evidenza come l’analisi empirica metta in crisi il teorema stesso, in quanto l’applicazione di questo modello non giustifica la situazione post-2008 che ha visto un abbassamento del tasso di cambio reale seguito a un precedente periodo di picco e di stasi. Tenendo in conto delle opportune differenze tra Paesi europei già “avanzati” (Unione Europea a 15) e 8 Paesi dell’Europa centrale e orientale (CEEC’s), la Levasseur ha cercato di spiegare quali fossero le falle del modello economico analizzato. Ha concluso con delle raccomandazioni politiche concernenti l’aumento del salario soprattutto rispetto al settore manifatturiero, la prospettazione di un nuovo modello di crescita che sia meno basato su un basso costo del lavoro, un più alto potere di acquisto dei lavoratori e ha affermato la necessità di contrastare il forte deflusso dei lavoratori dall’Europa orientale a quella occidentale.

Infine, sono intervenuti Federico Lucidi, Policy Officer della Commissione europea specializzato sul lavoro e sugli aspetti sociali del semestre europeo e Ben Egan, consulente dell’ETUC (European Trade Union Confederation). Lucidi ha commentato sottolineando come, a suo parere, nell’ultima decade la Commissione abbia lavorato per rafforzare la dimensione sociale, affermando che oggi si potrebbe applicare il Pilastro sociale con più coerenza rispetto al passato, prendendo spunto dai cicli di 15 anni già conclusisi. Infine, la futura agenda dell’ETUC illustrata da Egan prevede una maggiore integrazione dei lavoratori e una riduzione delle ore lavorative, una strategia che permetta di affrontare i cambiamenti tecnologici e la segmentazione del mercato del lavoro, insieme alla promozione di politiche dirette a facilitare un mercato del lavoro attivo.

Senza dubbio, le premesse e le opzioni da cui ripartire per un rilancio dell’Europa sociale non mancano – primo fra tutti, ad esempio, il Pilastro europeo dei diritti sociali: resta, come sempre, da lavorare alacremente per il rafforzamento di una volontà politica diffusa e comune affinché tali potenzialità possano effettivamente tradursi un cambio radicale di rotta delle politiche dell’Unione Europea.