A casa, nel mondo

Non so voi, ma ultimamente mi è capitato spesso di sentirmi preoccupata per come vanno le cose. Di pensare che il mondo stia cambiando in peggio.

Non si tratta solo dei risultati delle elezioni o delle notizie di cronaca. Mi fa paura soprattutto l’impressione che stia andando persa la capacità di empatia, forse addirittura la nostra umanità. L’onda di razzismo sembra sempre più travolgente, fino al punto di negare che prima di ogni altra cosa siamo tutti esseri umani.

Questo vale ancora di più nel caso dell’Italia. Il nostro paese ha nella propria storia il Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar ma rifiuta di aiutare chi rischia di naufragare tra le onde del Mediterraneo.

La mancanza di solidarietà è ancor più incomprensibile per chi, come me e molti altri della mia generazione, è a sua volta un migrante. Per partire alla ricerca di un futuro migliore, lontano da casa, abbiamo dovuto risparmiare o chiedere ai nostri genitori ben più delle cento lire della canzone. Certo, noi non siamo partiti rischiando la vita in balia delle onde, ma con mezzi più sicuri e con il vantaggio di un passaporto per cui le frontiere sono aperte. A permettercelo è però soltanto il fatto di essere nati nella parte privilegiata del mondo.

Da migrante quindi non capisco come l’odio per gli immigrati possa affermarsi proprio nel mio paese, dove ormai quelli che se ne vanno superano di gran lunga gli arrivi.

A vederla da lontano, non riconosco più la mia Italia, generosa e accogliente.

La paura di perdere irrimediabilmente le radici, di non riconoscere la propria casa nella mia esperienza è uno degli aspetti peggiori dell’andarsene. Vedere i cambiamenti da lontano è sempre difficile. Viene il senso di colpa per non poterci essere, il timore di perdere passaggi fondamentali. I nipoti crescono troppo in fretta, gli amici si innamorano di persone per te sconosciute, sei costretto a mancare compleanni, matrimoni e nascite. Osservi da fuori eventi importanti, inizi a pensare che quello che è sempre stato familiare non ti appartenga più.

Poi però finalmente torni a casa, anche per un breve periodo. E magari i bambini della famiglia all’inizio non ti riconoscono, sono timidi, ma dopo qualche minuto ti sorridono e chiedono di giocare. E i soliti amici si trovano forse ad un bar diverso, forse nuove persone si sono aggiunte al solito gruppo, ci sono nuovi episodi da raccontare, ma rimane costante l’affetto reciproco; le radici che temevi spezzate sono invece cresciute, si sono espanse. E allora riparti sentendoti più leggero nonostante il cibo di casa, perché sai di non aver perso le basi da cui sei partito.

Ecco, io oggi mi sento ottimista perché sabato scorso sono tornata a casa.

Tornare a casa è sempre in qualche modo una festa, che si tratti di un’occasione speciale o che sia una semplice pausa all’interno della routine quotidiana.

Sabato però si è trattato di un ritorno a casa speciale, perché sono tornata per una manifestazione.

Per chi è cresciuto come me, in una famiglia che considera il 25 aprile importante quanto il 25 dicembre, le manifestazioni sono un momento a cui è difficile rinunciare.

Questa manifestazione era stata ideata quattro mesi fa “da poche persone intorno ad un tavolo” come hanno detto gli organizzatori. Partendo da un’idea semplice, “prima le persone”. Appena visto l’annuncio, avevo deciso di esserci, per segnare la distanza da chi pensa di ridurre i diritti ad una competizione tra “noi” e “loro”. Contavo di trovarci famiglia, amici e compagni, pronti a rivendicare i valori con cui sono cresciuta, in un momento in cui il racconto pubblico sembra negarne l’esistenza.

Ed infatti ieri in piazza c’erano molti volti noti, compagni di militanza di una vita, sin dai banchi di scuola. C’erano i sindacati, l’ANPI, l’ARCI, le ONG e le associazioni, i partiti della sinistra. C’erano gli scout, l’ACLI e le associazioni religiose. C’era il movimento LGBTQ nelle sue varie sigle. C’erano anche bandiere e striscioni meno usuali, delle associazioni delle comunità straniere o di gruppi di scuola e di quartiere. C’erano anche e soprattutto le bandiere ed i simboli delle navi che in questi mesi hanno continuato a condurre i salvataggi in mare. C’era Mediterranea, addirittura con un grande modello della nave Mare Ionio. C’era una distesa enorme di bandiere della pace, sotto cui i bambini giocavano ad inseguirsi.

Ma c’era soprattutto tanta gente, tanta gente normale, senza simboli, con i cartelli scritti a mano su pezzi di cartone. Tante famiglie con bambini con i loro fogli con slogan e disegni. Ragazzi e ragazze che sfilavano sorridenti accanto ad anziani militanti. Tantissimi insegnanti con i nomi delle loro scuole. Una marea di persone semplicemente sorridenti e felici di ritrovarsi, orgogliose della propria apertura alle differenze, di quel principio apparentemente fuori moda che è la solidarietà.

Eravamo talmente tanti che alla partenza del corteo sono rimasti bloccati per ore. Percorrendolo a ritroso, passato il primo furgoncino per centinaia di metri non si sentivano musica e slogan, ma non era un silenzio triste. Si sentiva invece il brusio delle chiacchiere delle persone che sfilavano, le telefonate di quelli che non riuscivano a trovarsi in mezzo alla folla, i saluti con i passanti, le risa e le battute.

Più indietro comparivano le prime bande musicali, le canzoni classiche da manifestazione abbinate al ritmo dei tamburi africani. E si vedevano le persone ballare e cantare. Poi cominciavano gli spezzoni organizzati, con la musica trasmessa dagli altoparlanti, e le persone attorno che saltavano. E ancora non si vedeva la fine.

Quando finalmente siamo arrivati alla fine del percorso, erano passate quasi tre ore dall’inizio della manifestazione, ed era già finita la diretta dal palco. Piazza Duomo era ancora piena nonostante non ci fossero più interventi, e le persone continuavano a sfilare. Qualcuno dai camioncini ha detto che eravamo in 200.000, qualcuno 250.000, ma i numeri importano poco.

Quello che conta è che eravamo una marea. Quello che conta è che i passanti si mischiavano ai manifestanti, sorridevano ai cartelli, salutavano, ballavano. È che era difficile distinguere chi era venuto a passeggiare per il centro e chi era venuto per manifestare. I due gruppi si mescolavano fino ad essere indistinguibili. Perché le grandi manifestazioni, quelle che sono un vero successo, funzionano così. Coinvolgono quelli che gli stanno attorno. E sono soprattutto una grande festa, un’occasione per stare insieme, come quando si torna a casa dopo un lungo periodo.

Ed ora che sto per ripartire, e salutare famiglia e amici, mi pesa meno del solito. Perché ieri sono tornata a casa.

E se come me guardando le notizie da lontano temete che il nostro paese stia cambiando in peggio, voglio rassicurarvi. L’Italia ottimista e accogliente che conosciamo c’è ancora nonostante tutto. La casa dove siamo cresciuti è ancora lì, solida e ben piantata a terra.