“Ne valeva davvero la pena?”
E’ la domanda che, in queste ore, nel Regno Unito si stanno ponendo un po’ tutti.
C’è una proposta di “accordo” per il divorzio tra Londra e Bruxelles; su questo accordo Theresa May ha incassato un “sì” timido e perplesso dai Ministri del suo Governo –pagato con le dimissioni di almeno quattro Ministri “chiave”, tra i quali quello per la Brexit e quello per l’Irlanda del Nord, ed un rischio evidente di “effetto domino” che potrebbe far cadere il suo Governo da un momento all’altro. Accordo che dovrà ora essere accettato anche dal Parlamento: e lì la maggioranza per approvarlo sembra –ad oggi- una chimera. Così come dovrà essere approvato nel Summit UE e poi dal Parlamento Europeo.
“Ne valeva davvero la pena?” si chiedono su tutti i fronti politici britannici. E’ il tormentone per i “falchi”, coloro che sostenevano la necessità di una Brexit più dura possibile, magari un’uscita senza accordo, prefigurando uno scontro con l’Europa che restituisse un pieno –per quanto illusorio- “sovranismo” al Regno Unito. Se lo chiedono i sostenitori (sempre meno, a onor del vero) delle trattative portate avanti dalla May, coloro che politicamente hanno pagato un prezzo altissimo per le continue incertezze, retromarce, tentennamenti mostrati dalla Premier in questi mesi. Se lo chiedono –e lo chiedono ad alta voce anche con un certo sarcasmo- tutti coloro che la Brexit non la volevano, non la vogliono e pensano che sia ancora possibile fermarla: una realtà che forse, oggi, potrebbe registrare una nuova maggioranza popolare.
Perché il testo di questo “accordo”, visto dal versante Oltremanica, scontenta un po’ tutti e costringe ad accettare condizioni che, per la storia e la mentalità britanniche, nonché per la tenuta del Governo, possono anche apparire umilianti.
C’è una cifra altissima che il Regno dovrà sborsare all’Unione, per tener fede agli impegni assunti in passato. Siamo sui 50 miliardi di euro circa, versati senza averne alcuna contropartita: ma questo punto era già stato digerito.
C’è la formalizzazione che il Regno Unito non potrà trattare accordi economici con i singoli stati europei, ma dovrà confrontarsi con le regole e le decisioni dell’Unione: boccone amaro per chi narrava di mirabolanti sviluppi economici conseguenti proprio alla bilateralità delle relazioni economiche.
C’è una fase di transizione lunga, che non prevede cambiamenti reali per la chiusura delle frontiere agli “stranieri” e non prevede in molti aspetti nemmeno quando finirà –come fase di transizione. E questo è più difficile da accettare, per chi aveva giocato tutte le proprie carte proprio nel proporre la Brexit come unica possibilità per “riprendere il controllo delle frontiere”.
C’è il dover sottostare ancora agli organi di giustizia e di risoluzione delle controversie internazionali previsti e gestiti dall’Unione Europea, paradossalmente però senza farne più parte: una beffa, secondo molti.
E c’è soprattutto quel nodo del confine Nordirlandese, quel tratto di terra nell’isola d’Irlanda che si è faticosamente pacificato solo con gli accordi del 1998 e che si è pacificato solo grazie alle normative europee sulla libera circolazione. Normative che avevano di fatto annullato la linea di divisione –storica, politica, culturale, sociale e religiosa- permettendo a tutti di sentirsi “vincitori”: l’Irlanda del Nord rimaneva formalmente nel Regno Unito ma l’isola viveva ormai come un unico corpo verde, senza barriere, senza controlli, senza confini.
Non a caso era il punto più difficile, nell’accordo di separazione, e non a caso è quello che –in queste stesse ore- sta creando un terremoto a Londra.
Perché l’accordo siglato dalla May prevede –contrariamente a quanto promesso fino ad ora- proprio uno status particolare per l’Irlanda del Nord rispetto al resto del Regno.
Prevede che non si torni ad un confine, ad una barriera, né fisica né doganale, la quale verrebbe spostata nel Mare d’Irlanda: un confine interno, dunque, tra Irlanda del Nord e Isola Britannica. Un confine interno imposto dall’Europa ad uno Stato che ha scelto di uscire dall’Europa per tornare “padrona dei propri confini”…
Non dimenticando che il Governo May si tiene in vita con i 10 indispensabili voti del DUP (il Partito unionista del Nord Irlanda) e che il DUP vede in questa soluzione una separazione de facto dal Regno e, dunque, una sua sconfitta storica. Inaccettabile. Per tradurre: impossibile da votare in Parlamento.
E non dimenticando, poi, che il Primo Ministro Scozzese –la Nicola Sturgeon del Partito Nazionale Scozzese- ha già chiarito da tempo che, qualsiasi soluzione “particolare” si dovesse individuare per l’Irlanda del Nord, pretenderà immediatamente che sia applicata anche per la Scozia. Disegnando così una sorta di disgregazione regionale del Regno Unito nelle relazioni con l’Europa, nei trattati economici, nella libera circolazione, nel controllo doganale.
“Ne valeva davvero la pena?” è la domanda che ovviamente ci poniamo anche noi, ragionando sulla nostra parte di interesse specifico, sul compito che ci è assegnato: la condizione dei nostri connazionali nel Paese e la possibilità che altri vi possano accedere per lavorare, studiare, vivere come vogliono. Si scrive nell’accordo che il “divorzio” non toccherà la possibilità per chi è già residente nel Regno Unito di rimanervi: ma nulla si dice sulle possibilità di creare successivamente distinzioni in materia di diritti sociali, diritti civili, trattamento economico o accesso alla sanità tra “nativi” ed “immigrati”. Si dice che –nella fase di transizione- per i cittadini comunitari sarà ancora possibile entrare nel Regno Unito: ma si afferma che dopo “cambierà tutto”, le frontiere saranno chiuse a chi cerca lavoro e saranno controllate anche per chi arriva per studiare. Si dice, appunto: perché ad oggi regna sovrana l’incertezza, l’insicurezza, l’estrema difficoltà di capire cosa davvero potrà accadere.
Con una terribile “perla”, che dovrebbe farci riflettere moltissimo: tanta è la consapevolezza di come l’economia britannica –ma anche il way of life britannico- sia oggi sostenuta dai nostri concittadini italiani ed europei lì emigrati, che sembra prefigurarsi quello che –con espressione infelice dei media locali- è chiamato il “visto da barista”: un visto specifico per lavori più umili, meno retribuiti, meno tutelati.
Ci sia permesso di dirlo tra parentesi: nel momento in cui in Italia, a fronte di una nuova emigrazione composta ormai da centinaia di migliaia di italiani l’anno, c’è una parte del mondo politico che ricomincia a marginalizzare il fenomeno con l’espressione “fuga dei cervelli” (per limitarlo così a pochi professionisti con titolo di studio altisonante e lavori “alti” e ben retribuiti e –dunque- per ignorare quella massa di connazionali che ha bisogno di sostegno, tutele e diritti), beh, è opportuno sapere che per i nostri “cervelli” stanno prevedendo solo “visti da baristi”.
E dunque, come era facile prevedere, non ne valeva la pena.
Non ne valeva affatto la pena. C’è un Governo in crisi, che potrebbe non avere nemmeno la maggioranza in Parlamento; c’è una sterlina a picco rispetto all’euro; c’è una rinata “questione irlandese” che speravamo tutti di aver finalmente pacificato; c’è l’incertezza che domina nella vita di almeno tre milioni di persone europee presenti nel Regno Unito e quasi ottocentomila britannici in Europa e c’è la certezza di molte aziende internazionali che nel Regno Unito non è più il caso di rimanere, con un danno sull’occupazione complessiva che è spaventoso calcolare.
Ancora in queste ore, da più parti nel dibattito politico anglosassone si ipotizza –si spera- che tutta questa serie di errori, improvvisazioni ed incertezze nella gestione della Brexit possa portare ad un risultato chiaro: richiamare i cittadini alle urne e bloccare del tutto l’uscita. Annullare la separazione. Mantenere il Regno Unito in Europa.
Non possiamo dire con certezza quanto ciò sia possibile –sia da un punto di vista formale sia da un punto di vista politico.
Sicuramente è una spinta più forte di una mera suggestione e certo sarebbe un modo straordinario per uscire da quello che appariva, già nel momento esatto in cui si conoscevano i risultati del referendum, come un disastro annunciato.