Come ogni anno, l’8 marzo si rinnovano in tutto il mondo gli appuntamenti e le iniziative per la Giornata internazionale della donna, con tanti temi su cui riflettere e agire. Noi di ITACA abbiamo pensato di contribuire alla riflessione con uno “speciale” sulla migrazione femminile
Cosa significa, oggi, essere una donna migrante?
Nel suo saggio “Le tre ghinee” Virginia Woolf scriveva: «Io in quanto donna non ho patria. In quanto donna non voglio una patria. In quanto donna, la mia patria è il mondo intero». Parole che si riferivano, nel 1938, al rifiuto dell’idea di patria intesa come “orgoglio nazionale” tanto caro, allora, ai fautori dell’interventismo in guerra.
Quell’“orgoglio nazionale” tanto caro, se facciamo un salto temporale di circa 80 anni, a coloro che oggi sono i fautori della chiusura dei porti, della cultura del nemico che vede nel migrante una minaccia, dello sfruttamento e dell’emarginazione del diverso, dello straniero, del più debole.
Oggi il fenomeno della femminilizzazione dei flussi migratori è al centro di numerosi studi, che si concentrano su meccanismi e dinamiche, che vedono sempre più preponderante la presenza femminile nel proseguire delle ondate migratorie, soprattutto in anni recenti e recentissimi.
Allo stesso tempo, alle donne si riconosce ancora poco il ruolo svolto nelle migrazioni come attrici sociali di primo piano, come cittadine del mondo.
Si riconosce ancora troppo poco che vi è una “specificità” nell’emigrazione femminile – e che, spesso, molti degli ostacoli o delle opportunità nell’integrarsi in un Paese straniero derivano, appunto, dall’essere donna. Semplicemente.
Senza alcuna pretesa di essere “scientifici”, ma con il solo desiderio di dare spazio a chi avesse voglia di raccontare e raccontarsi, abbiamo raccolto le esperienze di alcune giovani migranti italiane.
Niente di meglio, quindi, che iniziare il nostro viaggio nella mobilità femminile con il contributo prezioso e “autorevole” di Delfina Licata, curatrice del “Rapporto Italiani nel Mondo” della Fondazione Migrantes, che abbiamo incontrato ieri a Bruxelles in occasione del “Rapporto Italiani nel Mondo 2018 e del nostro progetto “ANTENOR”.
Buona lettura!
“Uno degli aspetti che molte volte viene trascurato quando si parla di mobilità italiana è l’aspetto di genere, cioè pensare a quando a partire dall’Italia sono le donne – oggi come ieri.
In tante sono partite, diventando il nucleo fondamentale per le famiglie, proprio perché intorno ad esse venivano a costituirsi gli elementi fondanti dell’essere famiglia e dell’italianità. Erano il focolare domestico, erano le persone che riproponevano le tradizioni, gli usi, i costumi e la lingua. Erano “ancora di salvezza” per l’italianità, ma erano anche spunto fondamentale per la forza che veniva data agli uomini per un futuro di progetto familiare in migrazione.
Tutti questi elementi del passato li possiamo ritrovare ancora oggi.
Oggi, però, dobbiamo parlare di due forme di mobilità femminile. Una forma individuale, quella di tante donne che si sono affrancate dalla propria famiglia e decidono di trascorrere dei periodi – brevi o trasferimenti definitivi – fuori dai confini nazionali, da sole. Poi vi sono le donne che si spostano a seguito del proprio nucleo familiare, spesso giovane.
Sono donne eccezionali, sono storie che noi raccogliamo di persone straordinarie, che vivono la mobilità con una doppia preoccupazione, da un lato, e responsabilità dall’altro: la preoccupazione è quella che “tutto vada bene” – per sé stesse, per gli eventuali figli e compagni. Dall’altra parte, vi è la responsabilità di mantenere le relazioni con chi è rimasto in Italia, oltre che di mantenere il legame attraverso gli usi, i costumi e la lingua – loro che si preoccupano, ad esempio, di trovare un’assistenza pediatrica per i figli all’estero all’altezza di quella che avrebbero potuto avere in Italia.
Sono racconti molto belli, di donne che vivono la mobilità anche come “lacerazione”, naturalmente in forme diverse rispetto a quelle che possono vivere i loro compagni o i loro mariti. Proprio perché vivono e applicano il cosiddetto “lutto migratorio”.
Quando parliamo di “lutto migratorio” ci si riferisce a tre elementi, ovvero si abbandonano tre “madri”: la propria madre, dalla quale si è avuto la vita, la lingua madre e la madre patria. E la donna, in questo, ha certamente una sensibilità del tutto particolare.
Perciò faccio un augurio a tutte le donne in questa giornata dell’8 marzo!”
Delfina Licata
“Expat or Immigrant?
Queste due parole hanno in comune il riferimento a qualcuno che lascia il Paese natio e si trasferisce all’estero perlopiù in cerca di fortuna.
La differenza sostanziale è che nel primo caso il trasferimento non è definito a priori, il cambiamento è un’esperienza di un tempo indefinito ed indefinibile; nel secondo caso, invece, il trasferimento è inteso come permanente a monte, una scelta, almeno nell’intenzione, definitiva.
Se qualcuno due anni fa mi avesse chiesto con quale dei due termini mi identificassi avrei risposto senza alcun dubbio “Immigrant”.
Voglia di condizioni sociali e lavorative migliori e la prospettiva di una maggiore stabilità economica per una giovane donna, precaria, del Sud Italia non potevano che creare l’aspettativa di volerci dare un taglio netto e definitivo, di aver trovato il luogo in cui costruire un futuro e mettere radici.
Ebbene l’arrivo in Regno Unito, a Londra, ha completamente ribaltato questo ideale. Mi sono trovata ad essere trasferita per lavoro da Napoli, la città più bella del mondo ma forse anche la più complessa nel suo tessuto economico-sociale, alla capitale d’Europa con tutti i suoi autobus e il suo ritmo frenetico che accompagnano in maniera del tutto naturale l’eterogeneità della sua popolazione.
Qui il concetto di stanziale non esiste, tutto è dinamico, tutto è in divenire, tutto e’ difficile ma allo stesso tempo stimolante.
La mia esperienza di immigrata è durata veramente poco; dopo qualche mese ho cominciato a sentirmi subito un’expat: il cambiamento di prospettiva è stato inaspettato e naturale, quasi ovvio.
Le condizioni lavorative sono nettamente migliorate a livello contrattuale, a livello di garanzia dei diritti in qualità di lavoratrice ma soprattutto l’essere donna non è più rilevante. Mi spiego.
L’azienda in cui lavoro tiene conto di come lavoro, di quanto professionalmente valgo, di quanto mi impegno e dei risultati che raggiungo per me stessa e per l’azienda. A loro, semplicemente, non fa differenza che io sia una donna.
Sembra un concetto ovvio, quasi banale per persone del terzo millennio eppure, da dove vengo io, l’essere donna ha sempre fatto differenza, purtroppo in negativo.
Condizioni lavorative sfavorevoli e stipendi inferiori rispetto ai colleghi maschi sono quasi sempre un dato di fatto, qualcosa contro cui qualcuna di noi ha potuto lottare ma quasi mai vincere, qualcun’altra, vittima del ricatto sociale, non e’ riuscita nemmeno a lottare.
Io sono stata fortunata, ho avuto un’opportunità e sto vivendo una realtà migliore e questo è meraviglioso”.
Brunella, 34 anni, da Londra
“Ho conosciuto il mio attuale marito in Italia, quando entrambi eravamo studenti. Lui, tedesco, era venuto a studiare nella mia città con il programma “Erasmus”. Adesso viviamo e lavoriamo entrambi in Germania, con le nostre due figlie.
All’epoca degli studi non sapevamo “come sarebbe andata a finire”, nel senso che non sapevamo dove avremmo deciso di vivere e di costruirci un futuro, non avevamo un piano definito.
Per un periodo siamo rimasti in Italia cercando entrambi lavoro nei nostri rispettivi campi, ma dopo un po’ di tempo è stato abbastanza chiaro che trovare prospettive stabili e dignitose per entrambi si prospettava un’impresa un bel po’ più difficile di quanto avessimo sperato.
E’ così che abbiamo deciso di trasferirci in Germania, dove ormai viviamo stabilmente da più di dieci anni.
Per quanto riguarda la mia esperienza, beh, voglio credere che, col tempo, sarei riuscita a “combinare qualcosa” anche in Italia.
Certo è che mi è difficile immaginarmi che sarei riuscita ad ottenere la mia prima promozione subito dopo la maternità, come invece mi è accaduto in Germania…”
Claudia, 36 anni, da Lipsia
“Ho lasciato l’Italia solo pochi mesi fa. Ho deciso di partire già subito dopo aver terminato i miei studi superiori. Non sapevo cosa avrei voluto fare nella vita: sicuramente, il contesto italiano mi stava “stretto”.
Non vedevo prospettive concrete, non ho una situazione economica particolarmente agiata e avevo deciso che, almeno per il momento, non avrei fatto l’università, perché avevo bisogno (e voglia) di lavorare. Non esattamente facile, per me, trovare il mio spazio e costruirmi una vita nel “Bel Paese”…
Cercavo un modo per potermi trasferire all’estero avendo già una prospettiva di lavoro, perciò alla fine, anche un po’ per caso, ho deciso di partire per fare la “ragazza alla pari” in una famiglia australiana, dove vivo tuttora. Quello dell’au pair è un lavoro molto diffuso in Australia, e fondamentalmente consiste in uno scambio: vitto, alloggio e una “paghetta” in cambio di un aiuto con i bambini e con la casa.
Per adesso mi trovo bene, sicuramente questo è un ottimo modo per vivere un’esperienza in un contesto sociale e familiare completamente diverso da quello italiano. Un modo, senza dubbio, per mettersi alla prova, per scoprire i propri limiti – un modo anche facile e “protetto”, per una ragazza giovane senza particolari esperienze, di affacciarsi nel mondo degli “adulti”…
So che, anche se fonte di un arricchimento profondo, quella che sto facendo è certamente un’esperienza “limitata”: nel tempo e anche, penso, in termini di prospettive reali o concrete di integrarmi e costruirmi un futuro qui.
Tuttavia, è un inizio…”
Serena, 21 anni, da Melbourne
“La mia esperienza nel Regno Unito è iniziata quando ero giovanissima: avevo appena compiuto 18 anni e fatto la maturità in Italia. A differenza di tanti altri giovani italiani, ero fortunata a partire con un “piano”, ovvero frequentare qui l’università. Oltre all’educazione, ad ogni modo, cercavo anche un contesto migliore dell’ambiente fortemente sessista e razzista che incontravo quotidianamente in Italia, e che era l’opposto della società in cui volevo vivere.
La situazione nel Regno Unito non è di certo perfetta, e negli ultimi dieci anni la situazione si è gravemente polarizzata, culminando nella Brexit. L’ondata di pensieri e politiche di estrema destra che ha travolto l’Europa negli ultimi anni – con effetti drammatici in Italia – mi ha colpita da vicino.
Tanti tra i miei conoscenti hanno deciso di prendere misure preventive con l’avvicinarsi della Brexit, che fosse trasferirsi in un altro Paese, ottenere la permanent residence o la cittadinanza britannica o, come me, sposarsi per poter almeno avere un visto nel caso la situazione fosse ancor peggiore di quella che si è poi creata con la creazione del settled status per i cittadini europei.
Gli impatti della Brexit sulle donne sono incalcolabili: molte charity che si occupano di diritti delle donne hanno già preventivato che una percentuale sproporzionata di lavori persi dopo l’uscita del Regno Unito dall’UE saranno quelli di donne in condizioni professionali precarie, e che varie delle industrie che verranno colpite, come il tessile, opereranno tagli in una forza lavoro prevalentemente femminile.
Ancora peggio, la legislazione europea di importanza fondamentale come quella sulla violenza domestica e sulla discriminazione, anche nel campo lavorativo, non si applicherà più nel Regno Unito, rischiando di lasciare un vuoto legislativo dagli strascichi devastanti specialmente sulle donne in posizioni vulnerabili e svantaggiate, come molte donne migranti.
Nella Giornata internazionale della donna è importante ricordare che per me, una migrante economica da un paese del primo mondo, quella della migrazione è stata “un’avventura” e un’esperienza non sempre facile ma positiva.
Le conseguenze della Brexit nella mia vita sono ancora impossibili da prevedere, ma è palese che io rientri sempre nella fetta più fortunata delle donne migranti. L’austerità e l’hostile environment di Theresa May colpiranno in maniera pesantissima donne in situazioni di difficoltà come le donne rifugiate quando, ad esempio, i fondi europei di progetti di supporto e integrazione verranno tagliati.
Questo non considera neanche come uscire dall’Unione Europea intaccherà i nostri diritti in tema di sanità, educazione, e molto altro. Sono sicura che tra dieci anni gli effetti della Brexit nella mia vita in quanto donna migrante saranno lampanti, ma adesso come adesso la mia preoccupazione si rivolge soprattutto a chi non è arrivata nel Regno Unito con le sicurezze e i “paracadute” che sono privilegiata ad avere”.
Marta, 28 anni, da Londra
A questo link, il video del contributo di Delfina Licata per ITACA in occasione dell’8 marzo.