A casa, nel mondo

 

Quarantasette anni fa, un camion che viaggiava dall’Italia alla Francia attraverso il tunnel del Monte Bianco, ebbe un incidente. Il camion avrebbe dovuto trasportare macchine da cucire, invece trasportava persone: 28 lavoratori originari del Mali che in quell’incidente rimasero uccisi. Viaggiavano verso la Francia, in cerca di un lavoro e di migliori condizioni di vita – in cerca di un futuro. Era il 1972.

Appresa la notizia, il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) decise di adottare una risoluzione nella quale chiedeva alla Commissione sui diritti umani di occuparsi finalmente della costruzione di un quadro per la tutela dei lavoratori migranti. Contemporaneamente, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) adottò la “Convenzione 143 sui lavoratori migranti”. Era il 1975. In quegli anni, su input dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, presero dunque il via una serie di gruppi di lavoro che avrebbero portato all’adozione della “Convenzione per la protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie”. Era il 1990 – e la Convenzione, che necessitava della ratifica da parte di un minimo di 20 Paesi, alla fine entrò in vigore nel 2003.

Nel 2000, le Nazioni Unite hanno proclamato il 18 dicembre (data dell’adozione della convenzione da parte dell’Assemblea Generale) come Giornata internazionale del migrante. Oggi, nonostante un’intensa campagna internazionale di promozione, informazione e sensibilizzazione, la Convenzione conta solamente circa 50 ratifiche, da parte principalmente di Paesi originari dei flussi migratori, mentre non è stata ratificata da nessuno dei Paesi membri dell’Unione europea. E’ il 2019.

Molte cose sono accadute, dal 1972 ad oggi.

Una cosa, certamente, non è cambiata. Oggi come allora, si continua ad emigrare.

Oggi come allora, centinaia di migliaia di persone continuano a lasciare il proprio Paese di origine nel tentativo di costruirsi un futuro altrove. Oggi, il numero dei migranti nel mondo – ovvero delle persone che vivono un Paese diverso da quello in cui sono nate – è di circa 270 milioni, in continuo aumento rispetto agli anni passati. Oltre 70 milioni sono le persone in fuga, tra sfollati interni, rifugiati e richiedenti asilo.

Oggi, ogni giorno, centinaia di persone che cercano di raggiungere l’Europa – magari proprio l’Italia, per restare o continuare il proprio viaggio verso un altro Paese, vedono il loro tentativo di trovare una vita migliore spezzarsi contro una nuova ventata di disumanità, che trova la sua brutale realizzazione nell’innalzamento di nuovi muri e barriere, nella chiusura di porti e frontiere.

Tutto questo accade proprio mentre l’Italia è tornata ad essere, anch’essa, un Paese di emigranti: centinaia di migliaia di giovani lasciano l’Italia ogni anno in cerca di lavoro e il numero di italiani residenti all’estero ha ormai superato il numero di cittadini stranieri residenti in Italia. Ad ulteriore conferma, nel caso servisse, di quanto le campagne contro i migranti in Italia siano puramente pretestuose e strumentali al rafforzamento delle politiche dell’odio portate avanti dalle forze xenofobe e razziste che ne sono promotrici.

Tutto questo, appunto, accade però anche quando – proprio pochi giorni fa, a Parabiago, una scuola, il Liceo Cavalleri, insieme all’ANPI ha deciso di dedicare una pietra d’inciampo alla memoria di un ragazzo. Un ragazzo di quattordici anni che veniva dal Mali – proprio come i ventotto lavoratori che abbiamo ricordato poco sopra e che, proprio come loro, è morto nel tentativo costruirsi una vita in Europa.

Sulla pietra c’è scritto: “Qui aspettavamo il giovane del Mali morto annegato il 18 aprile 2015 portando una pagella sul cuore. Ogni insegnante giusto lo avrebbe accolto”.